mercoledì, maggio 26, 2004

E’ sempre stato più simpatico di me.
Era in grado di strappare un sorriso al più insensibile.
Aveva la faccia furbetta e gli occhi brillanti di vita.
Era facile amarlo, così pieno di risorse, così traboccante di gioia.
Mi ha sempre riconosciuto come un esempio.
Mi correva in braccio piangendo quando si sentiva minacciato dai “gandi”, per farsi scudo: mi correva incontro a braccia aperte gridando e singhiozzando: - fatellone!
Lui, dieci chili più pesante di me; e io mi lasciavo travolgere, sereno.
Cercava protezione, già da allora, e io facevo ciò che potevo, come potevo, per rialzarmi e consolarlo.
Ho sempre invidiato la sua carica, l’energia che lo muoveva e sembrava poterlo portare ovunque.
Ho sempre osservato, dall’esterno, con falsa preoccupazione, la sua capacità di superare di slancio un ostacolo senza temere di sbattere pesantemente a terra.
Lo osservavo vivere, nascondere le proprie debolezze con la forza del carattere che avrei scelto per me nel calderone del brodo primordiale.
Poi cominciai a scrutare nei suoi occhi la sua rabbia, i suoi desideri di fuga, la sua volontà di apparire, il suo desiderio di sentirsi amato da tutti.
Protetto dal falso scudo della mia razionalità arrivai a sentirmi giudice dei suoi errori.
Ma quelle che legano le persone ai sentimenti di chi le circonda sono prigioni i cui ceppi sono tanto più stretti quanto più il legame è forte.
Ogni tentativo di fuga è superfluo, perché la latitanza è un controsenso quando si è giudici e imputati a un tempo.